Quei malati dietro le sbarre

Immaginate di vivere in pochi, pochissimi, metri quadrati, e non da soli, magari in due, tre persone. Tutti i servizi concentrati lì, compresi lavello e cucina, lenzuola fresche e pulite solo ogni 15 giorni e, nei luoghi comuni, bagno alla turca o water separati gli uni dagli altri da un muretto alto appena un metro. Così vivono i detenuti in Italia, 53.498 persone in 199 istituti penitenziari che possono contenerne 49.493 (dati del Ministero della giustizia).

In questa comunità chiusa, sovraffollata in strutture spesso fatiscenti, a strettissimo contatto gli uni agli altri, anche un’infezione da poco diventa una bomba ad orologeria pronta ad esplodere e fare vittime. Anche se, a dire il vero, di infezioni da poco nelle carceri non ce ne sono: parliamo di epatiti, tubercolosi, Hiv, queste sono le malattie infettive più diffuse dietro le sbarre. Ma non solo, ci sono i disturbi psichiatrici e patologie come quelle cardiovascolari e metaboliche. La differenza è che “dentro” certe malattie colpiscono più che fuori, nel resto della popolazione, e curarsi o anche solo rendersi conto di essere malati è più complicato del normale e l’assistenza sanitaria può risultare difficile e a volte di pessima qualità.

Il quadro è quello che viene fuori da un’indagine della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (Simspe) che dal 3 giugno è riunita a Cagliari per il XVI Congresso nazionale sul delicato tema della salute in carcere. “Se il paziente è anche detenuto”, è il titolo eloquente del congresso che riunisce 250 specialisti, «un richiamo per tutta la nostra categoria di medici, ma anche per infermieri, operatori sanitari, agenti di polizia penitenziaria che operano all’interno dei 199 istituti penitenziari italiani, che deve ricordare che stiamo parlando di pazienti. Sono detenuti, ma in primo luogo sono dei pazienti», ha detto Sergio Babudieri, professore di Malattie Infettive all’Università di Sassari e Presidente della Simspe.

«La peculiarità della medicina penitenziaria è che anche le persone che sono sane ricadono sotta la giurisdizione del magistrato di sorveglianza che ha la responsabilità della loro salute; peraltro, per sapere che una persona non è malata è necessario comunque un atto medico», aggiunge Barbieri. «Quindi stiamo parlando di 60.000 persone giornalmente in carcere e di circa 100-110.000 che sono transitate nel sistema penitenziario italiano nel corso di ogni anno: una popolazione simile ad una media città italiana che ha una serie di forti esigenze in tema di salute».

Malati due detenuti su tre

Secondo la ricerca, nel 60-80% dei casi è presente almeno una patologia, ciò significa che due detenuti su tre sono malati. Tra le malattie più frequenti proprio quelle infettive, che interessano il 48% dei presenti nelle carceri: un malato di epatite ogni tre pesone residenti in carcere, mentre cala il numero dei sieropositivi. Il 32%, invece, deve fare i conti con i disturbi psichiatrici, a seguire le malattie osteoarticolari (17%), quelle cardiovascolari (16%), problemi metabolici (11%) e dermatologici (10%).

Secondo la Simspe, che ha studiato i singoli casi dei detenuti che si sono sottoposti a test e controlli (circa il 56%), il tasso di trasmissione stimato dalle persone Hiv positive consapevoli si aggira tra l’1,7% e il 2,4%. Molto più alto, quasi 6 volte superiore, quello stimato dalle persone sieropositive inconsapevoli, che raggiunge anche il 10%.

Stessa drammatica emergenza sanitaria era emersa ad aprile scorso da un’altra ricerca, svolta nel 2014 dall’Agenzia regionale di sanità (Ars) Toscana con i finanziamenti del Centro Controllo Malattie del Ministero della Salute. Su 16.000 soggetti detenuti nelle 57 istituti penitenziari di sei Regioni (Toscana, Veneto, Lazio, Liguria, Umbria e dell’Azienda sanitaria di Salerno), oltre il 70% è risultato affetto da almeno una patologia. Più del 40% del campione è alle prese con almeno una patologia psichiatrica, specie disturbi da dipendenza da sostanze, diagnosticati nel 24% dei detenuti, e disturbi nevrotici e di adattamento. Seguono per frequenza le diagnosi di malattie dell’apparato gastrointestinale, che colpiscono il 14,5% del campione: il 40% dei disturbi di questo grande gruppo di malattie è costituito dalle patologie dei denti e del cavo orale. Fra le malattie infettive e parassitarie, la più diffusa è risultata l’epatite C con una prevalenza del 7,4%, seguita da epatite B e e Aids, diagnosticate entrambe nel 2% degli arruolati nello studio.

Raddoppiati i malati di Hiv in cura nelle carceri

Paradossalmente, il fatto di stare rinchiusi nello stesso posto può offrire in alcuni casi l’opportunità di essere “sorvegliati” meglio dal punto di vista clinico e terapeutico. «Il periodo di detenzione può rappresentare un momento fondamentale sia per l’eventuale diagnosi di infezioni non riconosciute sia per avviare cicli di terapia che permettano, come nel caso dell’epatite C, di guarire dall’infezione», dice Massimo Andreoni, professore di Malattie Infettive all’Università di Roma “Tor Vergata” e Presidente della Società Italiana Malattie Infettive e Tropicali (Simit), presente al congresso. «In tal senso, il periodo di detenzione, che rappresenta un momento drammatico per la vita del detenuto, sotto il profilo sanitario può essere funzionale sia a fini diagnostici che terapeutici per le malattie infettive in atto».

Un valido esempio in tal senso viene proprio dal trattamento dell’Hiv. Un recente studio condotto da SIMSPe e Simit, infatti, mostra che i pazienti sieropositivi hanno un’elevata accessibilità ai trattamenti e vengono seguiti bene. «In quasi tutti gli istituti è possibile eseguire sia una carica virale che il monitoraggio delle funzioni immunitarie», ha detto Roberto Monarca, presidente Simspe-onlus, commentando i risultati della ricerca.

Più dell’80% della popolazione detenuta Hiv positiva è sotto trattamento antivirale con una buona efficacia, infatti oltre il 73% dei detenuti trattati dimostra una carica virale sotto le 50 copie: considerato l’ambiente è un ottimo risultato, specie se confrontato, per esempio, con quello della popolazione americana, in cui la percentuale dei pazienti sotto le 50 copie è inferiore al 45%, livelli che in Italia si registravano all’inizio degli anni Duemila.

Sanità in carcere, un sistema da perfezionare

«Uno dei problemi che stiamo studiando è la carenza di terapie innovative nei pazienti detenuti affetti da Hiv, ossia vengono spesso utilizzate per i detenuti delle terapie che sono un po’ datate», aggiunge Monarca. «I nuovi farmaci, quelli più costosi, ma anche le terapie di semplificazione, hanno ancora una scarsa applicazione in ambito penitenziario e lì dobbiamo lavorare, affinché i nostri detenuti abbiano le terapie più efficaci. L’utilizzazione di solo uno o due farmaci al giorno potrebbe semplificare di molto l’organizzazione e la qualità della vita dei detenuti».

Oltre all’accesso alle terapie più innovative, un altro problema importante è quello della presa in carico del paziente una volta in libertà, unica strada per evitare ricadute cliniche e non solo e per garantire la salute anche del resto della popolazione. «Numerosi studi, sia americani che europei, dimostrano che le persone che vengono prese in carico dalle strutture esterne una volta rilasciate dal carcere hanno una minore recidività, sia dal punto di vista clinico che da quello delinquenziale, in altri termini, in questi casi più difficilmente rientrano in carcere», conclude Monarca. «Quindi per interrompere quello che in gergo è definito come il ciclo di carcerazione-uscita-reincarcerazione, bisogna intervenire proprio garantendo la continuità terapeutica per il detenuto tornato in libertà».

Da tempo la Simspe chiede l’istituzione di un Osservatorio epidemiologico nazionale sulla salute in carcere per conoscere al meglio la dinamica delle malattie in carcere e migliorare i target di intervento. Ma le lacune da colmare sono tante. Anche se le competenze sanitarie in materia sono state trasferite dal Ministero della Giustizia al Servizio sanitario nazionale (Ssn) e a quelli regionali, il passaggio non è stato del tutto recepito e rispondere ai bisogni di salute dei detenuti non è sempre agevole. Fino a dicembre 2014, per esempio, i servizi sanitari attivati dalle Regioni nelle carceri erano privi del codice struttura che li identifica al Nuovo sistema informativo in sanità (Nsis), utile per integrare le attività di tutela della salute in carcere con il Fascicolo Sanitario Elettronico nazionale, elemento sostanziale per creare ed integrare la continuità diagnostico- terapeutica territorio-carcere-territorio.


Fonte Healthdesk.it