Il carcere evitabile e la riforma dimenticata

Articolo di Giuliano Rosciarelli per terranews

CATTIVA POLITICA. Parla l’avvocato Giuliano Pisapia, presidente della Commissione per la riforma del codice penale istituita nel 2006. Questo gruppo di lavoro ha concluso il suo iter ma nessuno vuole discutere in Parlamento il nuovo testo riformatore che ha prodotto. «L’obbligatorietà della custodia cautelale aumenta il numero dei detenuti. Siamo drogati da campagne di criminalizzazione sul tema della sicurezza».
Rivedere l’intero sistema sanzionatorio, con un maggiore ricorso a sanzioni interdittive, riparatorie e pecuniarie guardando al carcere come extrema ratio ed eventualità da riservare ai casi più gravi. Queste in sintesi le linee guida che hanno ispirato il testo di riforma del codice penale redatto da una commissione (istituita nel luglio del 2006 dal governo Prodi) guidata dall’avvocato Giuliano Pisapia (e riportato nel libro In attesa di giustizia. Dialogo sulle riforme possibili, autori lo stesso Pisapia e Carlo Nordio, edizioni Guerini). Il testo, pronto dal marzo del 2007, giace ora in Commissione giustizia al Senato dimenticato da tutti, compresi quelli (come il Pd) che all’epoca lo sostennero con forza.

Il numero dei reati si mantiene sostanzialmente stabile ma le carceri sono sempre più piene. Perché?
Dal 1989 vi è stato continuo aumento del numero di nuove fattispecie di reato. Di fatto per ogni problema anche di carattere sociale, economico o altro viene introdotto un nuovo reato. Lì dove invece esistono già si interviene con un aumento delle pene e con l’obbligatorietà della custodia cautelare, aumentando così il numero  di detenuti che per la legge sono presunti innocenti. Attualmente il 52% circa dei ristretti è in attesa di giudizio.
 
Ogni giorno passano per le carceri 170mila persone di cui almeno un terzo rimangono non più di tre giorni.  Altre 11. 212 devono scontare pene residue inferiori ad un anno e 6.649 pene da uno a due anni. 3.300 sono invece i detenuti con pene non residue sotto l’anno e 4mila sotto i due anni. Dati che dimostrano che ci sono in carcere soggetti non collegati a criminalità organizzata o che hanno compiuto reati di sangue. Sono inoltre diminuiti i casi in cui si concedono, pur potendo, misure alternative al carcere.
 
Misure che vengono considerate dall’opinione pubblica una concessione alla criminalità…
Perché siamo “drogati” da campagne di criminalizzazione che nascondono la verità e alimentano un clima di paura che dà vantaggi elettorali: chi sconta una pena in carcere ha il 70% di recidività, mentre con le misure alternative ha lo 0,31%. Basterebbe essere chiari su questo per convincere anche i più riottosi. Prima delle ultime elezioni, secondo l’Osservatorio di Pavia, ogni settimana la parola “sicurezza” veniva citata dai Tg 750 volte. Appena dopo le elezioni e l’approvazione dei pacchetti sicurezza, si è passati a 50 citazioni.
 
Visti i numeri attuali, l’indulto era proprio necessario?
Penso di sì, perché il sistema carcerario era al collasso. L’errore di fondo fu di non accompagnarlo con una riforma organica: amnistia per reati minori e un diverso sistema sanzionatorio che ci facesse uscire dalla logica del codice Rocco, per cui la sola pena è il carcere.
 
Che fine ha fatto la vostra proposta di riforma?
Con la caduta del governo Prodi, di fatto, è scomparsa. La destra, quando si parla di giustizia, pensa solo ai problemi di Berlusconi mentre l’opposizione ha paura anche ad affrontare il pur minimo dibattito parlamentare.
 
 
 
 
QUEGLI ISTITUTI DI PENA CHE SCOPPIANO
L’ultimo censimento della popolazione carceraria, datato 10 febbraio 2010, indica in 65.720 i detenuti presenti (a cui vanno aggiunte ulteriori 500 unità non conteggiate per assenze a vario titolo) rispetto a una capienza massima di 43mila persone.  L’ incremento delle presenze detentive è passato dai 200 a 300 a settimana fino a 1.300 mensili.  L’indulto, evocato dal Papa, approvato (in un mare di polemiche) nel 2006 dal governo Prodi, che consentì di far scendere il numero dei detenuti da 60mila a 38.800,  ha presto esaurito il suo effetto placebo.
«Gli incrementi  – conferma il segretario dell’Osapp, Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria, Leo Beneduci in una recente intervista – sono andati a pesare sulle sedi già in grave affanno, in quanto da tempo eccedenti la capienza massima sostenibile. Questo a riprova che il sovraffollamento penitenziario, oltre che dalle operazioni di polizia contro la criminalità e dalle esigenze processuali, è anche frutto di scelte non eccessivamente coerenti e razionali in seno all’Amministrazione penitenziaria».

La lista nera degli istituti di pena più sovraffollati vede in testa la Lombardia con 8.895 detenuti (+348), la Sicilia con 7.868 (+317), la Campania con 7.770. A seguire l’Emilia-Romagna (con 554 detenuti in più), il Veneto (+350) e la Puglia (+259). Caso a parte il Lazio, che svela un quadro desolante: all’8 febbraio contava 5.882 reclusi a fronte di 4598 posti (1284 detenuti in più).  Il governo ha provato a rispondere all’emergenza con un  “piano carceri” varato a gennaio imperniato su quattro pilastri fondamentali: il primo punta sull’immediato con la dichiarazione dello stato di emergenza fino al dicembre 2010 e la realizzazione di 47 nuovi padiglioni all’interno delle carceri attuali.  Il secondo sulle infrastrutture con la costruzione di 18 nuovi istituti per 9.650 posti-detenuto in più nel 2010 e 21.700 entro il 2012. Il terzo sull’organico con l’assunzione di duemila agenti in aggiunta agli attuali 40mila. Il quarto punta al decongestionamento sia dal punto di vista carcerario che processuale con l’inserimento di una norma che prevede la sospensione del processo per le persone con reati imputabili fino a tre anni e la possibilità di svolgere lavori di pubblica utilità per riabilitarsi. Un progetto ampio e molto costoso che peserà sulle case dello Stato per oltre 500 milioni di euro, già stanziati dalla Finanziaria, 2010 oltre ai 100 milioni del Dicastero di via Arenula. Soldi che per gli operatori sociali come l’associazione Antigone, da anni impegnata sul fronte carceri, potevano essere destinati a progetti più mirati come il recupero sociale delle persone detenute. Con quella cifra se ne sarebbero potuti finanziare oltre 10.000. «Le misure alternative alla carcerazione ci sono e funzionano – ha detto Susanna Marietti dell’Osservatorio sulla detenzione di Antigone – mentre costruire nuove carceri non servirà a nulla perché con questo sistema presto si riempiranno anche quelle».
 
 
QUASI META’ DEI DETENUTI E’ AFFETTA DA MALATTIE INFETTIVE
Ad aggravare le condizioni dei detenuti  costretti a vivere in ambienti sovraffollati, s’aggiunge la precaria condizione sanitaria nelle carceri. Secondo una stima presentata da Evangelista Sagnelli, presidente della Società italiana di malattie infettive e tropicali, nel corso di un convegno a Regina Coeli, (organizzato per parlare della riforma sanitaria che ha trasferito, diciotto mesi fa, le competenze dell’assistenza penitenziaria dal Ministero di giustizia a quello della salute), quattro detenuti su 10 in Italia soffrono di malattie infettive.
E il 35% di loro è colpito dall’epatite C, la principale patologia che colpisce i carcerati nel nostro Paese. Sempre secondo i dati il 6-7% della popolazione carceraria è malato di epatite B, mentre il 2-3% ha l’Hiv. «Per le malattie infettive succede sempre così – ha segnalato Sagnelli -: appena si abbassa la guardia tornano a riaffacciarsi, e in questi ultimi anni la guardia è stata abbassata troppo spesso. Ambienti troppo affollati non fanno che acuire il problema perché si tratta di malattie facilmente trasmissibili». Guardando ai casi regionali, tra i più preoccupanti c’è quello del Lazio dove la prevalenza maggiore è dell’Hiv, così come avviene in Liguria e Lombardia. Negli istituti laziali circa il 40% dei ristretti ha contratto l’epatite C,  il 6-7% l’epatite B e i casi di contagio si sono verificati nella maggior parte tra i tossicodipendenti. Il dato significativo riguarda come detto i detenuti affetti da Hiv, che risultano essere il 3,3% del totale, il doppio rispetto alla media italiana. In Campania è invece storicamente diffusa l’epatite. Altrettanto grave poi la condizione dei malati psichiatrici (20% del totale dei reclusi) e quella del 12-16% dei casi di persone reattive al bacillo della tubercolosi. Il trasferimento delle competenze e delle finanze dal Ministero della giustizia a quello della sanità non ha cambiato di molto la situazione. I fondi stanziati dallo Stato non sono riusciti a raggiungere in tempo utile tutte le Regioni e le somme in molti casi si sono rivelate scarse e insufficienti. Inoltre, il passaggio non è stato completato del tutto nel nostro Paese, in alcune parti, come in Emilia Romagna è già avvenuto altrove, come nel meridione, ancora ci sono delle lentezze. «Il problema nasce dalla eccessiva sottovalutazione del problema – ha chiarito Livia Turco, ministra della Salute ai tempi del governo Prodi – il trasferimento delle competenze della sanità penitenziaria era stato da noi pensato per migliorare l’assistenza e necessitava di linee guida che coordinassero i vari interventi. Purtroppo questo ancora non è stato fatto. Il ministro Fazio, rispondendo a una mia interrogazione, ha detto che le risorse sono state completamente trasferite e che bisogna avviare i tavoli con le Regioni. Ora c’è bisogno di un gioco di squadra per arrivare presto ad una soluzione».

Fonte: terranews