Guantanamo Italiana

Continuare ancora oltre sul discorso dell’alimentazione in carcere sarebbe noioso, quindi con questo articolo desidero chiudere il capitolo e come conclusione ritengo sia appropriata questa testimonianza di Claudio, che conosco personalmente per aver fatto  insieme a lui, un pezzo della mia carcerazione.
Prendo spunto da questa testimonianza per aprire il successivo capitolo e cioè le carceri vecchie e quelle nuove.

 

Il carcere di Favignana sembra fatto a posta per farti sentire una merda. Anche il solo mangiare è occasione per avvilirti. 19 euro a settimana, questo è quanto il carcere spende per far mangiare un detenuto.
Mò, con 19 euro a settimana, che manco un cane, cosa potevamo mangiare? Sbobba.
Sbobba condita.
E sì perché il carrello col vitto ce lo portavano in cella passando dal cortile esterno del carcere.
E qui sta il bello!
Quando pioveva ci arrivava la pasta piena di pioggia, e quando c’era il sole i piccioni ci facevano i bisogni dentro.
La mia pena?
Tre anni in una cella messa a dieci metri sotto il livello del mare.
Così si sconta, ancora oggi, una condanna nel carcere dell’Isola di Favignana.
Una vecchia nave mi ha portato da Trapani a Favignana.
La Pietro Novelli della Siremar.
Dovevo capire dalla traversata, cosa sarebbe stata la mia detenzione.
Ammanettato mi hanno chiuso sotto, ovvero dentro un piccolo magazzino messo in un lato della stiva, dove ci sono le automobili.
Un incidente e avrei fatto la fine del topo.
Il viaggio chiuso in quel magazzino e seduto su corde, bidoni ed altri attrezzi.
Come una bestia.
Arrivati a destinazione, c’è voluto poco a raggiungere il carcere.
Ad andare di nuovo sotto.
A Favignana, infatti, a pochi metri dalla piazzetta dove d’estate si prende l’aperitivo, c’è il carcere.
Superato il protone del carcere. Il silenzio.
Mi turbava quel silenzio sembrava di stare in un monastero. Si chiude il protone dietro di me.
Davanti solo una discesa che porta sotto.
Il carcere di Favignana è tutto sotto terra.
Gli uffici, l’infermeria, le celle.
Scendo all’ufficio matricola, poi in infermeria e alla fine scendo in cella.
Dieci metri sotto il livello del mare.
Quando si dice toccare il fondo.
Entrato in cella, capisco quel silenzio.
Una vera e propria caverna, sotto terra e senza finestre.
Lì sotto, solo pareti introno a noi.
Lì sotto un muretto separava la cella dal cesso.
Cesso con un piccolo fornello da campo per farci la pasta.
Lì sotto altri 3 detenuti pallidi e muti interrompevano un sonno sedato per darmi un’occhiata.
Lì sotto c’era la muffa, l’umidità, gli intonaci che si staccavano.
Vado al cesso, apro il rubinetto per bere.
Qualcuno sulla branda ride, mentre mi sente sputare.
Lì sotto l’acqua non si può bere, perché è salata, è quella del mare.
Così è iniziata la mia detenzione a Favignana. E così è continuata.
Una vita da sepolti vivi.
Una vita sempre uguale e degradata, a cui non riesci ad abituarti.
Ti senti una merda e non ti abitui a stare chiuso in cella senza finestre per 22 ore al giorno.
Ti senti una merda e non ti abitui ai topi che stanno in cella con te.
Non c’è mai abitudine alla perdita di dignità.
Ti senti solo sgretolare piano, piano.
Ti abitui a capire se il mare è mosso, perché le onde sbattono sui muri delle celle.
Ti abitui a capire quando arriva l’aliscafo, perché un altro tipo di onda sbatte sui muri della cella, ma non ti abitui a fare l’ora d’aria in un cortile che sta a 10 metri sotto terra.
Cielo a quadretti anche di giorno e la fine del muro di cinta al livello del mare.
Ogni tanto qualcuno di noi provava a saltare per riuscire a vedere qualcosa che non fosse muro. Una mano sulla spalla di un compagno era il punto di appoggio per conquistare un po’ panorama.
"Hai visto qualcosa?" "No, niente è troppo alto il muro".
In un angolo un vecchio detenuto si godeva la scena e scuoteva la testa.
Non capiva l’inutile tentativo.
L’orizzonte, lui, l’aveva dimenticato. Poi di nuovo in cella, in quella cella.
Alcuni detenuti fortunati potevano andare ogni tanto nella "saletta artigianato", dove c’è un tavolo e qualche attrezzo.
Per noi detenuti a Favignana quella pena non aveva domande né misure alternative.
Se uno di noi chiedeva di parlare con l’educatore, rischiava di prendere rapporto.
Sono uscito con l’indulto altrimenti stavo ancora il quella topaia. In un carcere così sei un numero e come numero non puoi chiedere più di tanto.
Succede che qualche detenuto non ce la fa più e protesta e finisce che lo mettono in cella di isolamento con la sola colpa di essersi ricordato di esser un uomo.
Ti lasciano nudo, in mutande, al freddo senza neanche il materasso, solo la rete di ferro per dormire.
Ho visto un ragazzo messo in isolamento, dovevo lavare lui e pulire la cella.
C’era uno schifo che non vi dico…poveraccio.
Un paio d’anni fa un ragazzo si è impiccato in quella cella. Non ce l’ha fatta a resistere.
Nel carcere di Favignana non ti puoi lamentare con il direttore perché non c’è.
Lì c’è solo, come lo chiamavamo noi, Barbabianca.
Sono uscito da poco, ma nel carcere di Favignana ho conosciuto l’ansia.
Oggi, a pochi mesi dalla libertà, sembro un reduce di guerra,di notte ho gli incubi. spesso sono depresso.
Mi aiuta lavorare, vado avanti con 309 euro al mese.
Ma la cosa più difficile per me non è andare avanti. Dimenticare. Dimenticare quella pena.
Dimenticare il carcere dell’isola di Favignana, e gli occhi di chi sta ancora lì sotto.
Claudio 35 anni

 

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Ora qualche cosa è cambiato, un direttore ora c’è, ma le celle sono sempre sottoterra e si sa, il buio fa male al sistema immunitario.

Francesco