Aids e comunicazione

    
Parla brianzolo l`originale e interessante pubblicazione a livello nazionale realizzata sul tema della comunicazione fra il malato di Aids e il mondo che lo circonda.
Autore del libro il missagliese Massimo Peef, fotoreporter da vent`anni, che ha deciso di mettersi in gioco regalando questa pubblicazione per risvegliare nella società l`importanza sul senso della comunicazione e del dialogo fra la malattia e l`esterno.

    Ad appoggiare l`iniziativa non poteva mancare Don Antonio Mazzi, sacerdote in prima linea nella lotta alla droga e fondatore della comunità Exhodus, Paolo Fresu fra i più importanti musicisti jazz al mondo, lo stilista Alviero Martini e Don Tiziano Soldavini, cappellano dell`ospedale Spallanzani di Roma, fra i più avanzati nella ricerca e nella cura della malattia.
"Il peso del silenzio", questo il titolo del libro, è stato realizzato in collaborazione con l`associazione solidarietà Aids di Milano e la provincia di Lecco.

Riportiamo integralmente l`introduzione al libro fatta dallo stesso autore.

Nella vita c’è sempre un movente che ci spinge ad affrontare ogni impresa. A volte anche solo il desiderio di crescere. Ho cominciato a interessarmi del virus di immunodeficienza umana, prima sotto l’aspetto scientifico, poi sotto quello sociale e, strada facendo, mi sono inoltrato sempre più nel problema. Ho contattato persone e associazioni, ammalati e sani, medici e operatori sociali… alla fine ne ho parlato con un amico editore e… ne è venuto fuori questo libro, Il peso del silenzio. In questo caso il movente qual è stato?
La comunicazione. Ho sentito il bisogno impellente di far “vedere” la sieropositività, soprattutto a quella parte del mondo che sembra ignorarla… Faccio il reporter da troppi anni per lasciar perdere qualcosa che possa mettere in luce gli aspetti più concreti di questa nostra vita! Al primo impatto mi era sembrato che tutto fosse scontato. Ma ho capito subito che “scontato” era sinonimo di “ignoranza”. Conoscevo l’esistenza dell’HIV, sapevo che le strutture ospedaliere e assistenziali facevano egregiamente il loro dovere e che i sieropositivi potevano trovare in queste cure sollievo al loro dramma… Il problema era che, non sentendo più parlare dell’AIDS, quelli come me pensavano che non valesse più la pena di interessarsene perché tutto risolto.
In realtà la sieropositività è un enorme iceberg alla deriva in un “mare di ghiaccio”, tra altri iceberg che appaiono solo per un settimo del loro volume.
La malattia è solo il punto di partenza per affrontare questo discorso. Le strutture ci sono, le terapie vengono dispensate, le persone che risultano sieropositive con le cure più moderne riescono quasi a dimenticare di essere malate, e fin qui sembra che tutto vada bene.
Ma allora qual è la parte sommersa? La risposta è semplice: è proprio il fatto che questo “silenzio” emargina i sieropositivi e ne accresce un certo tipo di dolore. È un po’ come se fossero stati inglobati in una specie di custodia che li rende invisibili. Quando l’ho capito, ho pensato che dovevo scoprire come vivevano la loro quotidianità per portarla alla luce. Mi sono rivolto alle persone che hanno fondato e sostengono l’ASA di Milano (fra questi il dott. Massimo Cernuschi, medico del reparto malattie infettive del San Raffaele di Milano) e ho avuto conferma che quanto avevo intenzione di fare andava proprio a mettere il dito nella piaga. La caratteristica di “cronicità” che ha assunto la malattia ha fatto sì che il dramma non sia più dirsi: «Mi preparo a morire», come un tempo, quando la guerra con la vita era persa in partenza… Dove prima la malattia rappresentava il problema, adesso, che l’efficienza dei farmaci rallenta il manifestarsi dell’immunodeficienza, il problema è “sopravvivere”, anzi direi “vivere”. Ma per vivere realmente bisogna sentirsi “inseriti” nella società che ci circonda: bisogna accettarsi ed essere accettati, “comunicare” senza trovare barriere. Ecco, nelle mie intenzioni, il libro dovrebbe servire ad abbattere ogni tipo di barriera, anche quella “difensiva” (l’HIV passa da un individuo all’altro solo attraverso rapporti sessuali non protetti o mediante l’introduzione nell’organismo di sangue infetto, per cui non c’è nessun pericolo a comunicare con una persona sieropositiva), dovrebbe veramente servire ad abbattere quell’ignobile “muro di silenzio” che si è creato attorno a queste persone. Quanti hanno accettato che io fotografassi la loro quotidianità e la loro storia avevano già capito per conto loro che “comunicare” significava uscire da ogni forma di egocentrismo più gretto e quindi mi hanno facilitato il compito di entrare nella loro vita. Il problema era come coglierne gli aspetti più significativi, quelli che più potevano colpire l’attenzione dei lettori. Sono state le loro splendide “confessioni” a dare il senso della drammaticità del problema, a far emergere quella parte di iceberg che normalmente non si vede. Per una persona sieropositiva, infatti, vivere significa convivere con il concetto di “morte”. Non è “morire pian piano”, se mai è dare più importanza al tempo che resta da vivere perché la vita non diventi una rinuncia, è sconfessare questa nostra società che ha rimosso il concetto di morte e di tutto quanto viene considerato debolezza. Non importa se la vita è effimera: l’importante è viverla con la massima intensità per tutto il tempo che ci è dato di viverla, nonostante la debolezza, nonostante i limiti che la malattia comporta. Spero proprio che questo libro possa riaprire il dialogo tra le Persone, in modo da dare ad alcune una nuova ragione di vita e ad altre a farle uscire dalla loro beata indifferenza.