Dove si curano meglio le epatiti

    Gli specialisti italiani sono leader nello studio delle malattie del fegato.


Articolo di Elena Meli per Eccellenze – Gli ospedali dove studiano per curarci meglio.
 Corriere della sera.it


Una classifica stilata in base a un rigoroso metodo scientifico individua i centri all’avanguardia in Italia e in Europa
Le prossime conferenze dell’European Association for the Study of the Liver (EASL), in programma per fine giugno, si terranno in Italia.
Non è un caso: in tutto il mondo gli italiani, primi per numero di studi pubblicati sulle riviste scientifiche di rilievo e presentati ai congressi internazionali, sono ritenuti leader nello studio e nella cura delle malattie del fegato.

    Una supremazia confermata dalla nostra indagine, che nel nostro Paese individua una fitta rete di strutture dove la ricerca clinica sulle epatiti è di qualità . Uno dei motivi principali per l’eccellenza italiana però non è qualcosa per cui stare allegri: l’Italia è infatti uno dei Paesi occidentali con il maggior numero di malati di epatite, un serbatoio di pazienti tale da “obbligare” i medici a occuparsene facendo ricerca.


Con ottimi risultati: “porta la firma di un italiano, ad esempio, la scoperta del virus delta dell’epatite, e si devono a nostri connazionali molte delle tappe decisive nel miglioramento della cura delle epatiti virali acute e croniche”, racconta Massimo Colombo, direttore della Divisione di Epatologia dell’Ospedale Maggiore di Milano, “sono i frutti di un impegno iniziato negli anni ’60, quando è nata l’Associazione Italiana per lo Studio del Fegato (AISF): gli epatologi italiani da allora hanno sempre lavorato secondo i criteri più rigorosi”.


Proprio tramite l’AISF sono state disegnate e condotte sperimentazioni che hanno lasciato il segno, anche e soprattutto per la gestione pratica dei pazienti: “gli studi italiani coinvolgono sempre molte strutture e quando viene proposto un nuovo progetto vi aderiscono centri praticamente in ogni regione”, spiega Antonio Gasbarrini, segretario generale AISF, “i risultati sono perciò lo specchio della realtà  clinica nazionale, ma soprattutto comportano una ricaduta pratica immediata: se ogni regione ha una struttura dove si fa ricerca innovativa, i pazienti possono giovarsi delle nuove scoperte e accedere alle cure migliori senza sobbarcarsi spostamenti di centinaia di chilometri.


Questo è importante soprattutto al Sud, dove le epatiti sono ancora più frequenti e dove sono sorti istituti considerati fra i migliori al mondo”. Una volta tanto infatti il meridione non è fanalino di coda della ricerca, anzi: in Sicilia ad esempio si trovano ben due centri di rilevanza internazionale. Accanto a questi grossi istituti di riferimento esistono poi in tutta Italia molte strutture dove si trovano ottimi epatologi, come conferma Gaetano Ideo, presidente del comitato scientifico della Fondazione Amici dell’Epatologia (FADE): “i centri ai primi posti della classifica sono anche quelli che i pazienti, rispondendo a un questionario FADE, hanno indicato fra i migliori in Italia. Ma ve ne sono tanti altri, più piccoli e diffusi in modo capillare, di cui i malati apprezzano spesso la facilità  a instaurare un proficuo rapporto medico-paziente”.


 “La disseminazione dei centri è positiva per l’assistenza ai pazienti, ma c’è un rovescio della medaglia”, avverte Antonio Craxà¬, direttore dell’U.O. di Gastroenterologia ed Epatologia dell’Ospedale di Palermo, “in Italia 635 strutture prescrivono terapie antivirali per l’epatite, ma il 75-80% dei malati gravita attorno a una trentina di istituti. Gli altri si occupano di pochi, pochissimi casi ogni anno e la qualità  delle cure potrebbe non essere sempre il massimo: garantire ovunque la parità  delle prestazioni sanitarie deve invece essere un nostro obiettivo”. Anche Colombo ricorda come l’esperienza nella gestione complessiva dei pazienti sia imprescindibile per individuare i centri all’avanguardia: “poter contare su laboratori di ricerca da cui attingere idee, su reparti dove si trattano anche le fasi più complesse della malattia cronica, sull’accesso al trapianto di fegato: queste sono le caratteristiche che fanno la differenza”.


 Le strutture cosଠnon sono poche in Italia, tanto che “i programmi di trapianto, ad esempio, soddisfano le esigenze nazionali e sono fra i migliori in Europa”, spiega Mario Rizzetto, direttore della Divisione di Gastroepatologia dell’Ospedale Molinette di Torino, “certo, i nei non mancano: sono ancora pochi, ad esempio, i luoghi dove ricerca di base e clinica si integrano davvero, dove è più facile capire quante e quali scoperte si possano trasferire con successo all’uomo”. “Il dialogo fra ricerca molecolare e clinica è necessario per progredire e l’Italia dovrà  impegnarsi di più su questo fronte per continuare a distinguersi”, aggiunge Claudio Tiribelli, direttore del Centro Clinico Studi Fegato di Trieste, aperto nel 2003 per avvicinare sempre più il letto del malato al bancone del laboratorio.
Ma le sfide per il futuro non finiscono qui: ottimizzare le cure e trattare anche i pazienti resistenti ai farmaci attuali, capire come e perchà© alcuni sviluppino cirrosi e tumori, individuare anticorpi contro il virus dell’epatite C per scongiurare recidive dopo il trapianto, ma anche usare le cellule staminali per riparare il fegato e capire le cause della steatosi epatica per poterla prevenire sono solo alcuni fra gli obiettivi dei ricercatori italiani.


“Dovremmo anche ottenere maggiore attenzione dalle istituzioni: le malattie epatiche provocano il 10% dei decessi nel Paese, ma ben poco si è fatto per sostenere ricerca e cura. E dobbiamo anche, più semplicemente, riuscire a individuare tutti i portatori di epatite C, visto che ad oggi ne abbiamo diagnosticati appena il 10-15% del totale”, conclude Craxà¬.



Forse qualcuno è ancora tentato di uscire dall’Italia per curarsi il fegato. Eppure, gli epatologi di casa nostra non hanno nulla da invidiare al resto d’Europa: quattro delle prime dieci posizioni della graduatoria europea di ricerca sulle epatiti sono in mano a istituti italiani e dal nostro Paese arriva la quasi totalità  degli studi sulla steatosi epatica.
Solo i francesi “tengono il passo”, con una differenza: in Francia i migliori sono quasi tutti a Parigi o nei dintorni, in Italia è vero il contrario, perchà© ogni centro della top ten appartiene a una regione diversa. “In Francia lo studio delle epatiti virali è da tempo una priorità  indicata dal Ministero della Salute, ci sono grossi finanziamenti da parte dell’Agenzia Nazionale per la ricerca sull’AIDS e le epatiti virali e c’è una lunga e proficua tradizione di studi nel settore”, commenta Jean-Michel Pawlotsky, segretario generale EASL e direttore del Centro di Riferimento Nazionale francese sulle epatiti virali, “molte ricerche fondamentali sulle epatiti arrivano poi dall’Italia, che produce dati solidi e attendibili come pochi altri Paesi grazie a sperimentazioni che coinvolgono moltissimi pazienti. Sono europei, inoltre, studi fondamentali sull’epidemiologia, la storia naturale e la terapia delle epatiti: il Vecchio Continente vanta infatti una buona organizzazione degli ospedali universitari, un’ottima tradizione di ricerca clinica e la propensione a realizzare collaborazioni ampie e di qualità “. Dall’esperienza nella ricerca alla buona pratica clinica il passo è breve, secondo l’esperto: “non si riesce a far ricerca di alto livello se i pazienti non sono gestiti bene e i centri di cura non sono organizzati al meglio. Francia e Italia sono entrambe ottimi esempi, perchà© eccellenti nella ricerca e anche nel trattamento e nella prevenzione delle epatiti: penso ad esempio al programma italiano di vaccinazione contro l’epatite B, che oggi nel resto del mondo è considerato un modello da seguire”, considera Pawlotsky. Il nostro Servizio Sanitario Nazionale peraltro ha favorito la ricerca nel campo delle epatiti: in Italia l’interferone è stato sempre rimborsato e la gratuità  delle prestazioni mediche ha permesso di seguire e studiare tantissimi malati, per lunghissimo tempo. Risultato, linee guida d’intervento basate su dati solidi e su un’esperienza vasta ed eterogenea. Va detto però che l’Italia non gode di finanziamenti alla ricerca paragonabili a quelli possibili in Francia o in Germania, “per di più in quei Paesi i Centri epatologici sono organizzati in reti supportate dai Ministeri ed è molto più semplice collaborare a progetti comuni e produrre ricerca”, fa sapere Rizzetto, “eppure, nonostante i limiti, l’Italia ha messo a segno primati importanti, dalla vaccinazione per l’epatite B ai primi protocolli di cura con gli antivirali”.


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