Elementi predittivi di mancata retention in care nelle persone HIV+

Il 2 luglio, presso la sede di NPS Italia Onlus, si è concluso il progetto sulla retention in care nelle persone con HIV

La presentazione del report a clinici e rappresentanti di associazioni attive nell’ambito della cura e prevenzione dell’HIV, così come previsto dal progetto, si è sviluppata in due momenti: il primo dedicato alla illustrazione dei dati analizzati e il secondo alla discussione degli stessi e alla individuazione di possibili azioni per migliorare la conoscenza del fenomeno della retention in care.

La presentazione ha inizialmente toccato alcuni aspetti più rilevanti del lavoro, quali le modalità di raccolta dei dati, la significatività statistica degli stessi e la impossibilità, nel nostro Paese, di avere elementi descrittivi dei fenomeni di migrazione dei pazienti da un centro di cura all’altro. Il problema, non solo italiano, potrebbe essere fortemente ridimensionato se si applicasse la regola di comunicare da parte del centro che accoglie il nuovo paziente l’arrivo dello stesso al centro da cui era precedentemente seguito: chi perde un paziente non è in grado di sapere se si sia trasferito o se sia lost to follow up, ma chi accetta il nuovo paziente possiede sempre questa informazione.

La rilevanza del fenomeno dei pazienti persi è stata particolarmente discussa con riferimento ai pazienti più giovani, con meno di 30 anni, che presentano percentuali di lost to follow up tra il 9% e il 13%, decisamente alte, anche considerandole in parte riconducibili agli spostamenti da un Centro e all’altro.  Il fenomeno è stato considerato preoccupante per più di un motivo.

Il primo è che è probabile, anche se i dati che vengono raccolti non possono corroborare questa ipotesi, che si tratti in larga parte di pazienti molto giovani, msm, il cui l’abbandono della terapia potrebbe avere immediate ripercussioni sulla possibilità di contagio in sottopopolazioni particolarmente a rischio.

Il secondo è che si tratta di un fenomeno su cui non esiste una attenzione né da parte degli infettivologi, che non vedono nei giovani una tipologia di paziente maggiormente a rischio, né tantomeno da parte degli infermieri, che addirittura tendono a considerare a rischio il paziente anziano.

Il terzo motivo è che i giovani sotto i trent’anni rappresentano una tipologia nuova di paziente, che ha un diverso rapporto con la malattia: la percentuale di pazienti lost to follow up nettamente più alta potrebbe indicare una sottovalutazione dei rischi e una gestione scorretta e pericolosa della terapia.

Il dato sulla percentuale di persone giovani lost to follow up, sempre più alto che nelle altre fasce di età, ha incentrato gran parte della discussione che si è sviluppata a seguito della presentazione di dati, vedendo l’intervento dei rappresentanti sia dei clinici che dei rappresentanti dei pazienti, entrambi orientati ad approfondire il problema e a cercare possibili interventi correttivi del fenomeno.

In generale si può ritenere che il lavoro, grazie al doppio binario di intervento basato sulla raccolta di dati di realtà e di opinioni di testimoni privilegiati, abbia consentito di evidenziare come la retention in care sia un fenomeno quantitativamente rilevante, ancora poco conosciuto e soprattutto gestito con una attenzione inferiore a quanto sarebbe necessario per poterlo gestire in modo complessivo. A riprova di ciò il fatto che nella raccolta dati non esiste la garanzia che il paziente lost to follow up sia considerato tale in modo omogeneo in tutti i Centri, al di là di quanto previsto dalle linee guida in materia. In questo senso è stato evidenziato come possano esistere differenze tra Centri di diverse dimensioni nella gestione del paziente e delle procedure di raccolta dei dati.

Il clima nell’ incontro conclusivo è comunque stato decisamente positivo, con una discussione proficua sui dati, un interesse diffuso per un approfondimento dei problemi emersi e alcune proposte operative concrete su cui riflettere.

 

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