Valore aggiunto

Articolo di Claudio Pasin per RealLife Network

Sono trascorsi già quindici anni da quando ho conosciuto Ada durante un caldo pomeriggio estivo in spiaggia: bella, solare e accattivante. Fu subito intesa.

Era l’inizio di una storia sentimentale come tante, intensa e passionale, quando, in seguito ad una polmonite, le venne diagnosticato l’Hiv. Lei fu bravissima, combattiva e tenace da subito.
Io ero disorientato ma determinato a continuare un rapporto con una persona che scoprivo sempre più affine a me, quella che comunemente si identifica come “l’altra metà”.

Di comune accordo palesammo subito la nuova condizione anomala “racchiusa” nella nostra coppia.
E fu la scelta giusta.
Affrontammo i miei genitori, gente semplice ed onesta priva, però, degli strumenti culturali necessari per affrontare l’argomento nella sua complessità; rimasi invece orgogliosamente sbalordito dal coinvolgimento immediato e dal tatto con cui, anche per gli anni a venire, seppero starmi vicino.
Anche con le altre persone che frequentavamo decidemmo di mantenere un approccio sull’argomento sereno e sincero, che disinibiva e toglieva d’impaccio gli amici che si sentivano liberi di approfondire l’argomento con maggiore disinvoltura.
Tutto sommato, eravamo nel 1993 e Aids era ancora sinonimo di peste, ma non abbiamo mai vissuto una condizione da emarginati, anzi, per certi versi siamo stati “coccolati” più di quanto ci spettasse.
Ada godeva di buona salute e lavorava come libera professionista e io, come lavoratore autonomo, potevo disporre con libertà del mio tempo, che passavo con lei nelle attività più disparate, consolidando la magia iniziale.
Dopo i primi mesi di convivenza, superate le iniziali paure dovute all’ignoranza in materia (per il primo anno ho fatto il test dell’Hiv ogni tre mesi, finché il dottore mi ha suggerito di smettere, stava diventando una patologia!), la nostra vita aveva preso una china decisamente normale quando il virus reclamò la sua parte di palcoscenico.

Nel maggio del ‘95 all’improvviso Ada inizia a stare male, quella malattia che stavamo gestendo quasi “virtualmente” con successo si scatenava, alla fine, in tutta la sua drammaticità.
Le viene diagnosticata un’infezione da citomegalovirus (retinite da CMV), un ceppo virale particolarmente aggressivo che la costringe ad un ricovero ospedaliero, ma nel reparto infettivi dell’ospedale la gente muore con frequenza e lo staff che ha in cura Ada decide di salvaguardarne l’integrità mentale sottoponendola a cure domiciliari.
Il suo corpo perde di vigore e arriva a pesare 38 chilogrammi. Costantemente sotto cura con flebo continue e spossata fisicamente, aveva iniziato un calvario che sarebbe durato per tutto il 1996.
Nell’aprile un’ulteriore peggioramento la costringe ad un ricovero d’urgenza, le viene rilevata una forte infiammazione polmonare con diagnosi incerta, il peso scende a 36 chilogrammi mentre il CMV (citomegalovirus) continua il suo corso distruttivo.
A quel punto la dott.ssa Sandra dello staff che segue Ada mi convoca e, con tutta la delicatezza opportuna in questi casi, sonda il mio stato d’animo e introduce il concetto di morte preparandomi al peggio.
C’è come un rifiuto a ricordare quel periodo, ora che ne sto scrivendo devo quasi fare violenza su me stesso per far riaffiorare quel turbinio di sensazioni ed emozioni che mi travolsero intimamente, se tentassi di descriverle cadrei nel banale; è stato un periodo molto strano e lontano da ogni precedente esperienza.
Ada pero non “molla” e, quando viene a sapere che il CMV la sta accecando, affronta una terapia sperimentale all’università di Padova.
In agosto comincio ad accompagnarla a queste sessioni terapeutiche e la devastazione ad opera del virus si ferma, ma perde la vista da un occhio e salva sette decimi dall’altro.
Tuttavia le condizioni rimangono pessime: il suo aspetto fisico è cadaverico, io sono al suo fianco, la porto a cena fuori ma il suo stomaco non regge, la gente si gira per la strada e la osserva con piglio quasi morboso, trascorre giornate interminabili a letto circondata da flebo e cannette varie in un valzer di emozioni contrastanti, paura, speranza rassegnazione e fatalismo.
Coriacea come pochi, lei continua a sopravvivere, malgrado l’insonnia che l’accompagna puntualmente ogni notte la induca alle considerazioni più negative.
Finalmente, nel 1997, arriva la “triplice”, un nuovo cocktail di farmaci che Ada recepisce molto bene e grazie al quale inizia una ripresa insperata, le infezioni opportunistiche spariscono, il CMV è debellato ed il peso aumenta togliendole quell’alone di “morte” che contrassegnava il suo viso.
Più in generale il 1997 si presenta come una sorta di “miracolo corporeo”.
Già dal 1998 Ada comincia a vivere normalmente e la nostra storia di coppia riprende da dove l’avevamo lasciata due anni prima, ma nel frattempo il rapporto fra noi si è arricchito enormemente di stima e fiducia reciproca.
Le nostre paure iniziali nell’essere accettati come coppia perdono ogni valore e smettono di essere oggetto delle nostre considerazioni.
Ripresasi, Ada inizia a dedicarsi al sociale con entusiasmo.
Il mio essere apprensivo ed egoisticamente attento a salvaguardare la nostra sfera privata ha vita breve perché noto da subito che il nuovo impegno è, per lei, denso di soddisfazione e che questa attività la ricolloca nella società.
Lentamente, con timore, come chi cammina sui vetri, ricominciamo un percorso di “normalizzazione” e senza neppure accorgercene ci ritroviamo, nel 1999, ad acquistare una casa impegnandoci con un mutuo e traslochiamo, con Pluto (il nostro gatto), da quella zona dove Ada abitava da anni vicino alla sua famiglia e che rappresentava, per lei, una roccaforte. Nel 2001, non paghi di tanta normalità, ci sposiamo.
Ora siamo nel 2008, mi ritrovo a scrivere questo articolo e mi rendo conto (capita un po’ a tutti) che il tempo è passato in fretta.
Ed è passato piacevolmente, abbiamo coltivato il piacere della montagna, sciando prima e arrampicando poi, abbiamo letto e giocato a carte con gli amici, viaggiato quando si presentava l’occasione e ovviamente oziato, cosa che stimola le endorfine ad entrambi.
Mi piace pensare che l’avvenuta sieropositività di Ada, diagnosticatale mentre ci stavamo corteggiando, abbia rappresentato un valore aggiunto, l’occasione di fare la cosa giusta e di sentirmi, con orgoglio, bene con me stesso.
Lo “scotto” pagato non è poi così terribile considerato che il limite più pesante è l’uso separato dello spazzolino da denti.

Claudio Pasin
 
Fonte: RealLife Network